Antonio nacque in una bella casa accogliente a Rosà, un centro agricolo a 6 chilometri da Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza.
Era il 23 Marzo 1915. Germania, Francia e Inghilterra si stavano già dissanguando nella prima guerra mondiale. Mancavano due mesi e un giorno a quel 24 Maggio che avrebbe visto anche l’Italia entrare nella terribile fornace eliminatrice di uomini.
Quando la guerra, tra cumuli di rovine materiali e umane, terminò, Antonio aveva appena tre anni e mezzo. I suoi ricordi su quei tremendi anni erano molto sbiaditi. Ricordava solo che “la polenta era il piatto forte mattino, mezzogiorno e sera. Il pane bianco, cotto una volta al mese nei forni a legna, si conservava gelosamente per i giorni di festa e per le grandi occasioni”.
Appena fu nell’età per andare a scuola, Antonio ricevette da papà la bicicletta, il sogno di tutti i ragazzi di quel tempo. Alla sera (e sarà un’abitudine che don Antonio terrà per tutta la vita) la recita del Rosario.
Accanto a mamma Regina, alle sorelle e ai fratelli, dopo le scorribande che cominciavano a caratterizzare i suoi giorni, Antonio ritrovava la serenità di ripetere senza fretta il nome dell’altra Mamma, che sarebbe divenuta una delle presenze più care e rasserenanti della sua vita
Antonio finì le elementari. Nonostante la madre desiderasse la continuazione dei suoi studi (allora non esisteva la media unica), Antonio preferì unirsi al papà e al fratello maggiore nel girare i mercati dove portavano il loro banco di frutta e verdura. Gli sembrava un’avventura affascinante. Presto se ne disincantò.
Finì per cedere alle insistenze della mamma, e con un amico raggiunse il convitto-aspirantato dei Salesiani di Trento. Il primo incontro con Don Bosco non riuscì però a domare il suo carattere avventuroso. Alla fine dell’anno gli fecero capire che era meglio se non fosse tornato.
Ma di tornare sui mercati non aveva più voglia, e i genitori lo iscrissero come esterno al “Collegio Graziani” di Bassano. Arrivava in bici al mattino, ripartiva in bici alla sera. Ebbe per compagno Sebastiano Baggio, che sarebbe diventato Cardinale e gli sarebbe sempre stato amico.
Gli anni passati a Bassano furono tre, molti di più gli insegnanti giunti al limite della sopportazione. Ogni settimana c’era una lunga lista di lamentele da far firmare a papà. E così Antonio decise di impegnarsi seriamente a falsificare la firma del padre. Riuscì così bene che potè anche giustificare diverse “assenze per salute” che passava scorrazzando in bici per la campagna.
Dopo il terzo anno, il rettore mise al centro della lettera di congedo una parola sottolineata più volte: Basta. Antonio aveva 16 anni, aveva finito la media inferiore e cominciato il ginnasio. Non era né carne né pesce. E ora, che fare?
Durante le vacanze ci pensò a lungo, poi a tavola annunciò: “Mi farò prete. Torno dai Salesiani”. Fu come un fulmine a ciel sereno. La sorella Angela (che sarà poi religiosa salesiana, FMA) esplose: “Se diventi prete, mangio un topo. Giuro”. L’unica che non cadde dalle nuvole fu la mamma. Sorrise e mormorò: “Lo sapevo prima ancora che nascesse”.
Scrisse a Torino, alla Casa Madre dei Salesiani, e fu accettato nell’aspirantato di Avigliana: 25 chilometri da Torino, sulle rive di un lago alpino, presso il Santuari della Madonna dei Laghi.
Due anni. Scrive: “Mi aiutò molto il clima di serenità e di pietà in cui si viveva. Lontano da mamma Regina mi affidai alla dolce Madre celeste, alla quale lei mi aveva insegnato a ricorrere con grande fiducia”.
Nel 1978 don Alessi aveva ormai 63 anni. Da 35 si dedicava con intensità totale alla catechesi, che per lui era “Vangelo sminuzzato, approfondito, valorizzato”. Ma viaggiando su è giù per l’india, a contatto con i missionari che lavoravano tra le gente più povera e dimenticata del mondo, sentì nascere in se stesso una nuova vocazione.
E’ lui stesso a descrivere questa nascita:
“Osservando la miseria, le sofferenze cui sono condannate tante creature, prive spesso del necessario per vivere, ho cominciato a pensare che avrei potuto dedicare l’ultimo scorcio della mia vita a una missione caritativa, anche perché è sull’amore verso i fratelli che saremo giudicati al termine della vita: “Io ho avuto fame, e voi mi avete dato da mangiare…” (Matteo 25,35).
“Il Cristo nudo, affamato, crocifisso nella carne, lo avevo incontrato tante volte nei miei viaggi. Il paese dove lo avevo avvicinato in condizioni inimmaginabili, più che in qualsiasi altro luogo del mondo, era l’India, con i suoi milioni di lebbrosi “i maledetti di Brahma per i delitti commessi in esistenze precedenti, che nessuno deve amare e aiutare”, nei milioni di orfani e figli di lebbrosi ridotti sovente a larve umane, con il ventre gonfio o ischeletriti per la fame; nei milioni di “paria”, i fuori casta, che “non sono nulla e non contano nulla”, come afferma la religione indù.
“I contatti con Madre Teresa di Calcutta, l’opera di tanti eroici missionari che lavorano silenziosamente e quasi nascostamente al servizio dei più poveri, mi convinsero che dovevo fare qualcosa anch’io per prepararmi con coscienza più tranquilla al giudizio di Dio. Pur senza tralasciare l’apostolato catechistico, mi sarei dedicato con tutte le forze ad aiutare quanti operano in prima linea per alleviare le sofferenze di questi figli di Dio, costretti a vivere in condizioni indegne di esseri umani.
“Chiesi il permesso ai Superiori e ai confratelli del Centro di Torino, che mi offrirono tutto il loro appoggio. Iniziai così quello che è diventato l’ultimo e più grande impegno della mia vita: realizzare dei grandi centri di accoglienza per i lebbrosi, per salvare i loro bambini innocenti, strappandoli alla morte per fame e al pericolo anche più tragico della lebbra”.
Don Alessi incontrò una congregazione religiosa femminile che operava negli “slums”, baraccopoli di miseria e di dolore, a Bombay e in altri stati dell’India. Cominciò ad affidare loro ogni offerta che riceveva per aiutarle nell’assistenza ai lebbrosi, ai poveri, ai bambini che sostentavano nei luoghi dov’erano presenti. Si chiamano “Helpers of Mary”, le “Serve di Maria”. Don Antonio le ribattezzò nel suo fiorito linguaggio “Le suore del sorriso”, perché, malgrado i luoghi degradanti cui sceglievano di vivere, le vedeva sorridere sempre, sorridere a tutti.
“Sono le più eroiche suore mai incontrate nei miei viaggi in tanti Paesi – scrisse di loro don Antonio -. Sono state fondate da madre Huberta Rogendorf, una religiosa tedesca giunta in India nel 1932. Raccogliendo ragazze povere, abbandonate, figlie di lebbrosi dagli “slums” di Bombay, nel 1942 aveva dato inizio a una Associazione di volontarie per l’assistenza e la cura dei lebbrosi e degli orfani.
Convinto che si poteva fare qualcosa di concreto per aiutare queste eroine della carità, don Alessi diede inizio a una campagna su vasta scala. Pubblicò libri, volantini, articoli per giornali. Organizzò viaggi in India, per sensibilizzare un numero sempre più grande di persone all’amare verso i più poveri dei poveri.
Nel 1987 fondò l’Associazione “I Fratelli Dimenticati”, che si trasformò in “Fondazione” con approvazione governativa nel 1994.
L’Osservatore Romano, il giornale del Papa, s’interessò a lui e della sua opera di sempre più vaste proporzioni. Il primo gennaio 1993 gli dedicò una vasta intervista, in cui don Alessi potè riassumere tutto il lavoro compiuto negli ultimi anni.
Nel 1988 don Alessi, che aveva sempre goduto di una salute di ferro, cominciò a soffrire seri disturbi fisici. Fu sottoposto a diversi interventi chirurgici. Poi un vasto aneurisma aortico gli invase la parte sinistra del petto e gli schiacciò le corde vocali tanto da ridurlo quasi in silenzio.
Passò nelle mani di altri Salesiani la Fondazione e continuò a ricevere nel suo studio, e poi nella sua camera, moltissimi visitatori e benefattori. Continuava ad usare il telefono, per tenere faticosamente ma coraggiosamente i contatti. Ascoltava molto, e parlava come poteva con un filo roco di voce.
L’ultimo tratto di strada che Dio gli concesse, don Alessi lo percorse pregando, mentre il silenzio gli bloccava le corde vocali. Avrebbe voluto morire in terra indiana ed essere sepolto accanto ai suoi fratelli lebbrosi. Ma teneva soprattutto a fare ciò che Dio voleva.
Concelebrò la S. Messa fino all’ultimo giorno, con un confratello sacerdote che celebrava ogni giorno accanto al suo letto. Le ultime parole che scrisse sono “Signore, tu conosci il giorno e il momento migliore perché venga a te. Signore, fa che sia sempre disponibile a fare la tua volontà. Signore, quello che tu vuoi, dove vuoi, quando vuoi, sicuro che quanto decidi tu è sempre per il mio bene e di tutti coloro che amo”.
L’ultima crisi lo assalì nei primi giorni del febbraio 1996. Portato d’urgenza all’ospedale, al confratello che gli diceva che le speranze si stanno esaurendo, disse con quel suo filo di voce roca ma decisa: “Sono pronto”. Dio gli venne incontro il 4 febbraio.
Lontano lontano, i figli dei lebbrosi giocavano sereni nelle opere create dalla sua Fondazione. Valeva la pena essere vissuti così.