Sono le tre di notte e mi trovo qui a scrivere, insonne. Troppe immagini disumane accumulate sino ad ora, in questa mia quarta visita in Haiti, mi passano davanti agli occhi; troppe questioni mi arrovellano il cervello. Come è possibile che a distanza di 25 mesi dal sisma che il 12 gennaio 2010 ha martoriato questa sfortunata isola caraibica ancora trovo gli stessi campi profughi, le stesse tende lacere, gli stessi bimbi ancora più smunti, stremati dalla denutrizione; esserini che pesano quanto un uccellino nonostante l’età anagrafica dovrebbe dare alla bilancia un altro responso.
Cammino in mezzo alla miseria, all’immondizia, alla disperazione e mi chiedo come può aver fallito in maniera così prepotente l’azione umanitaria che ha coinvolto il mondo intero l’indomani della catastrofe che ha ucciso più di 250.000 esseri umani.
Eppure centinaia di auto con affisse sulle portiere loghi di organizzazioni umanitarie note, meno note, sconosciute, continuano a intasare strade già disastrate, generando caos e imbottigliamenti. Sfrecciano veloci cercando di evitare bimbi come Roncy, straccio in mano e due gambette scheletriche. È inutile chiedergli l’età perché il terremoto, oltre la famiglia, gli ha portato via anche l’infanzia. Si è ritrovato solo, improvvisamente adulto a fronteg- giare giorno dopo giorno fame, sete, paura.
Vive e lavora per strada. Lo vedi destreggiarsi tra le vetture, evitando il pericolo di essere investito, con l’abilità di un ballerino e a piedi nudi, alla ricerca di un vetro da pulire in cambio di una monetina.
Bimbi come Roncy sono dappertutto, li trovi ad ogni angolo di strada. Scheletrici, sporchi, affamati. Come piccoli randagi ti seguono sperando in un miracolo, quello di tornare ad essere finalmente visibili in un paese dove l’indifferenza è diventata normalità. E proprio uno di questi piccoli, più intraprendente degli altri, mi si avvicina, mi prende con naturalezza la mano e mi accompagna a casa sua, una tenda lercia e sommersa da ogni genere di rifiuti. Basterebbe una folata di vento per farla crollare. Mi indica col ditino qualcosa che si muove all’interno. Incuriosita entro e scorgo nell’oscurità un esserino nudo e ricoperto di mosche. È una bimba, la sua sorellina, all’apparenza di pochi mesi. La prendo in braccio e mi accorgo che è cieca.
Mi sento afferrare per un braccio e mi giro di scatto, è il padre che mi supplica di aiutare sua figlia. Il tempo di un battito di ciglia e organizzo il trasporto della piccola Christela all’orfanotrofio “Soutien aux Enfants en Difficultè”, dove vi rimarrà circa una settimana per essere poi trasferita all’ospedale pediatrico Foyer St.Camille.
Christela, mi dice il pediatra, ha circa due anni, pesa sette chilogrammi ed è al quarto stadio di denutrizione, dopo non rimane che la morte. Nonostante i patimenti subìti è una bimba calma, non piange e mi accorgo che ama ascoltare la ninna nanna.
Ho passato ore a sussurrarle all’orecchio canzoncine e nenie e la bimba sembrava, finalmente, cominciare a capire che il mondo non è solo sofferenza ma anche cibo e latte a volontà, carezze, amorevolezza.
Luciana Giani